500 lune

Cosa si impara dopo 500 lune di vita. 40 anni addosso, cicatrici promesse e scuse.

Pubblicato il 28 Maggio 2021

Sono più o meno 500, le lune che mi sono visto passare sopra. Quarant’anni. Eccoli. Tolti i capelli bianchi, i chili in più, i dolori ricorrenti, il sonno sempre meno e sempre peggio, l’interesse progressivamente inferiore verso il cibo e il prossimo e i tanti dettagli che potrebbero rendermi la vita un po’ più bella, sono sempre lo stesso. Da dieci o vent’anni.

Ma se dieci o vent’anni fa guardavo con curiosità – fiducia o speranza direi di no – ai quaranta, oggi, con disillusione, di dieci o venti anni fa non rimpiango un giorno.
Finalmente i quaranta, insomma. Non li cambierei nemmeno per un’ora con i trenta o i venti. Fortuna i quaranta, che me li sento addosso da un decennio e finalmente li conquisto.

Sono traguardi, come lo furono i trenta. Oggi i sistemi di archiviazione on-line non hanno pietà nel ricordarmi quel giorno, il 26 maggio del 2011. Quante ne ho viste nel 2011. Una moglie tre città e due figli fa.

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Lisbona, 26 maggio 2011

Senza un soldo in tasca, senza un soldo davvero, volai all’altro capo d’Europa a respirarmi l’oceano, da solo. Un ragazzino. Brindai ai trenta con una cassa di Sagres, e decisi di andarmene per sempre.

Quanta ingenuità da giovani. Un decennio dopo sono ancora qua, morto di fame ero e sono rimasto, che due soldi in tasca ho scoperto non cambiano approccio né stile di vita. Fine delle similitudini.
Sono ancora qua, con mezza bottiglietta d’acqua sotto il sole cocente e il cielo limpido dell’Adriatico, in questo porto che tanto ha di me.

Ho scelto Ancona per celebrare questa ricorrenza. Quanto sarei dovuto e avrei voluto essere altrove, ma tant’è: la libertà di non avere soldi né responsabilità è la prima cosa che si perde da grandi, per ricevere in cambio una serie di possibilità che per mantenere quei soldi e quelle responsabilità non potrai più cogliere. È così che ti inculano, facendoti credere che sia significativo, che sia vera vita, che ci sia un fine da perseguire e blablabla. Cazzate.
Lo so che non è una strada a senso unico, ma so anche che man mano che lo zaino si riempie si cammina più piano e per scappare bisogna essere veloci.

Le navi beccheggiano appena sulle acque del porto antico; profumo di pesce e petrolio, la brezza pungente sulla pelle. Esclusi casa mia e il mio io, è qui che ho conosciuto la più profonda solitudine, e se i primi due non mi hanno mai abbandonato è qui che torno, carta e penna in mano, quando voglio riassaporare quell’intensità.
Il Guasco e l’Astagno, l’arco di Traiano e il basamento della lanterna, i gabbiani, i cantieri navali e le navi in partenza per l’altra costa.

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Ancona, il porto dalla Lanterna rossa

Oggi non sono più solo, non lo sarò più per tutta la vita, ma tra queste prospettive so che esserci passato una volta, in quell’inferno che per comodità semantica chiamiamo solitudine, m’ha lasciato addosso due cicatrici: una è non aver più bisogno degli altri, che spesso mi ha salvato la vita ma a lungo andare capisci che non è sempre un vantaggio; due è che quel malessere lo cercherò per sempre, che non è prevista guarigione.

Sarà luna piena stanotte. Nacqui alle 17,40, un pomeriggio caldissimo, mia madre appena venticinquenne. Quanto è lontano il 1981. Sembra lontano anche quel novembre quando nacque Giona – il giorno zero affacciato su questo stesso mare – e addirittura il novembre dell’anno scorso, quando ha visto la luce Gioele. Ma sono niente rispetto al 1981. Erano quaranta anni fa: mio padre aveva trent’anni, ed era già al suo secondogenito.
Non lo so, magari essere genitore negli anni Ottanta era più semplice, non c’erano crisi terremoti pandemie. Mio padre aveva una casa, un lavoro, una moglie, degli obiettivi, passioni che inseguiva e soddisfazioni. Niente che possa dire di aver conquistato, nei miei quarant’anni. Mi scopro ogni giorno più vecchio e inadeguato a fare il genitore, incapace di far fronte alle sfide quotidiane di padre – vivere sfide cento volte più difficili rispetto agli altri genitori non è una scusa – e di fatto arreso a questa evidenza. Questa probabilmente non era la mia strada, ma sì, lei è senso unico.

Spero che i miei figli mi perdoneranno. C’ho messo troppi anni a capire quanto sia importante il perdono, e che salvezza sia l’essere stato perdonato – solo un genitore potrebbe farlo, sia perdonare tanto che capirlo, questo perdono -, ma di fronte al bilancio di un fallimento così colossale quali sono i miei 40 anni non posso dire di avercela messa tutta, a mia discolpa. Però quel poco che ho fatto l’ho fatto davvero con tutto il cuore, anche se non è stato sufficiente.

ancona 2011 quarant'anni

Ancona, porto

Era il 1981. C’è chi non vedo più da dieci anni, chi da tanto più tempo. Molti se ne sono andati, alcuni per sempre. Ho dimenticato volti nomi voci, ho dimenticato fatti occhi abbracci, ho dimenticato odori e orizzonti ma non ho dimenticato le promesse fatte; io le ho mantenute, e nello sconforto questo mi tiene a galla.
La fedeltà alla parola data mi rende uomo. Non sono diventato un uomo a quarant’anni né a trenta né quando ho stretto la mano più piccola del mondo dentro la mia, ma quando vent’anni fa una promessa mi ha trascinato nel mondo dei grandi.

Me ne sono accorto vent’anni dopo, guardando quelle mani ormai maltrattate dagli anni e dal sole, ma ancora legate a quella parola e forti nel tenerle fede. Una forza che non teme gli anni.
Quasi 500 lune e capirlo solo ora.



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