Cosa resta, cosa ho perso

Un anno di vita dopo, ricordi rincorsi e dispersi.

Pubblicato il 20 Gennaio 2017

A volte vorrei sapere qualcosa come si sa – come sapevo – a dodici anni quando si impara o si capisce qualcosa su qualcosa per la prima volta, con la meraviglia della comprensione, senza sapere che potresti scoprire tante altre cose che la contraddicono, senza il disincanto che deriva dal fatto che ti è già passata davanti tante altre volte – ed è passata confrontandoti con tutto ciò che la smentisce.
(…)
Invecchiare – devo dire invecchiare? – è sapere che ci sono cose che non sapremo. Dico: dimenticare la speranza che prima o poi, che tutto arriva. Io vorrei sapere: certo che vorrei. Adesso so che è probabile di no – ma non è questo che mi dissuade dalla domanda. È duro farsi domande le cui risposte si immaginano irraggiungibili; non farsele è triste.
(…)
Credo che la rabbia sia l’unica relazione interessante che si può avere con il proprio tempo.
 
Martín Caparrós, La fame, Einaudi, Torino 2015, pp.700-701

C’ho pensato per mesi, prima che ci si aprisse la terra sotto i piedi e venisse giù cemento dal cielo. E’ stato un anno difficile. Credo il più difficile da che ho memoria. Tra paura e ansia, terremoti e una vita da proteggere, sono diventato uomo forse senza accorgermene. Forse senza neanche volerlo.
C’ho pensato per mesi a come poterla sintetizzare questa situazione vissuta giorno dopo giorno, con la difficoltà di definirla e il frastuono di una vita interiore intraducibile e incondivisibile, e sono riuscito a stento a riconoscere che avevo a che fare con lo scorrere del tempo, e che la questione non era la velocità ma la densità.

Ora so che non tornerò più sui passi che mi hanno portato qui, che non abiterò più i luoghi della mia infanzia, che non riaprirò più porte chiuse. Lo sapevo anche prima, ma lasciare una possibilità percorribile mi rendeva meno spaventoso crescere. Ho trascorso mesi a fronteggiare una tempesta di ricordi. Non so quanto questo abbia a che fare con Giona, con la mia genitorialità, con l’orrore, con le scosse che ci hanno distrutto lasciandoci in vita ad ammirare la violenza della natura. Non lo so ma so che non torneranno questi mesi. Sono emersi ricordi che non sapevo nemmeno di conservare, forse per l’ultima volta prima dell’oblio.

sibillini

Una finestra sul blu dell’Adriatico, il Conero scuro a chiudere l’orizzonte. Il tramonto e il primo assaggio di tristezza, la mano nella sua che mi riaccompagna a casa. Campagna intorno. Le statue nel bosco. La notte passata a suonare quell’organo. I tetti innevati, dal ponteggio. Sei corde piene. Le candele accese al Bois de Boulogne. Tanti nascondigli per quei pacchettini. La città illuminata, di notte, sotto il Colle. Le labbra fredde, morbide, umide, sfuggevoli. Il soffio silenzioso dopo la pressione sul cap, il profumo delle Dupli color. L’urlo della terra, le lancette ferme alle 11:42. La nebbia ai giardini, la stasi al muretto. I 4/4 tra una via e l’altra in una notte deserta. L’Adriatico da Sud a Nord in treno. Nella città abbandonata di agosto solo noi due a venirci incontro in via Salimbeni. Stazione Termini, infine, all’alba. Il marciapiede rovente e il tratto del marker in quell’interminabile pomeriggio. Il dolce, ingestibile, avvolgente caos in cui perdersi che l’alcool moltiplica all’infinito. Due mani dure mi estraggono dall’auto accartocciata. Pose metal sotto le stalattiti di ghiaccio. Un inverno infinito tra una macchina e l’altra, fumo denso negli abitacoli, bottiglie a giro. La porta che si apre, le braccia forti che mi tengono in vita. Quel corpo gracile, vecchio, raggomitolato sul divano. Il sole basso dietro le tende, la neve, la fine della notte. Una pietra racconta una storia in cima a quel monte a forma di pagliaio, all’ombra del San Vicino. Il blu del mare nei suoi occhi verdi. Il fischio degli pneumatici, i tornanti scesi col freno a mano. Il camino acceso, il trascinarsi della domenica, i ricordi frammentari messi in fila per ricostruire una notte. La costa croata laggiù laggiù, dal faro dorico. Notre Dame de la Garde là in alto. I piedi nudi nel Potenza. L’alba appesantita dai barili di Faxe Brewery, il suo SMS a illuminarmi il volto dal display. Il Conero si scrolla nebbia e notte di dosso, le intermittenze si fanno scafi e vele. La dissolvenza ti spegne mentre te ne vai. Un 360° di montagne nell’agghiacciante sol invictus. Il monte San Vicino così basso, da così in alto. L’Oceano esattamente come me lo sognavo, lì che mi aspettava da trent’anni. Il risveglio tra le vigne, in quel lungo addio. I deltaplani giù dal monte Cucco. Le luci che si sciolgono nella Ria e compare l’Atlantico. La Croce del Sud. Il decollo dall’altra parte del mondo. Le montagne superate, alle spalle. La tua manina minuscola stretta attorno al mio dito. L’azzurro dolcissimo del cielo. L’acqua gelata del Nera. La neve sulle macerie. Il silenzio.



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