Malta. Un’isola felice

Una manciata di chilometri a sud dell'Italia per trovarsi in un'isola che sembra un altro continente. Ma alla fine, a Malta, ritrovi tutto il Mediterraneo che conosci, nel bene e nel male.

Pubblicato il 7 Maggio 2019

A nessuno, esclusi elettori e turisti, piace essere preso in giro. Eppure, un paio di volte l’anno, più o meno speranzosi, andiamo a votare e in vacanza. Il day after, in entrambi i casi, è intriso di quel consapevole epifanico stato d’animo che ogni elettore tradito e turista beffato conosce. Ma dimentica, se rivoluzioni non se ne fanno e il mercato turistico è quello che è.

Ecco che il giorno che Ryanair inizia a volare a Malta dall’aeroporto dietro casa abbandoni logica e raziocinio, assieme alla memoria, e sfogli una guida turistica qualsiasi. “Non esiste disoccupazione”, “Un inglese di prima classe”, “Costi competitivi”, “Un’isola felice”, soprattutto, e altre affermazioni su questo tono che trasmettono un’immagine dell’isola che lo sai non sarà mai quella, ma decolli con i migliori auspici. Come quando barri il simbolo dentro l’urna.

I colori dell’isola sembrano quelli della Sicilia meridionale, meno lucidi, dall’alto, mentre il pilota più frettoloso della flotta irlandese tira la cloche. La prima immagine che mi viene da associare a questi spaccati di roccia e terra arsa e palazzi bianchi ha a che fare con il Medio Oriente. Tipo Gaza, Gerusalemme, Beirut. Non lo so perché, nemmeno le ho mai viste dal vivo, mai messo piede più a est di Istanbul, ma quelle realtà mi sembrano questa, per come i mass media me le hanno fatte conoscere. O più probabilmente, da un po’ cerco quelle caratteristiche ovunque vada e forse è ora di solcarlo, il Mediterraneo, end to end.

Atterriamo in un dì di festa, il Lunedì dell’Angelo. Sono cattolici a Malta, è una delle nazioni più cattoliche d’Europa, anche se i toponimi parlano arabo. Silenzio per strada; poche luci alle finestre, pochissima gente. Sono quasi i nostri passeggini il movimento maggiore e sappiamo che non sarà così anche domani: siamo in tanti, in famiglia; tra piccoli e grandi, ci spostiamo in tre generazioni, ormai. Con tutto il bello e il meno bello che questo comporta. Più il bello, però.

La Valletta e Mdina. La città fortificata e la città silenziosa

La cintura di Valletta – città minuscola rispetto al suo agglomerato urbano, composto da decine di città senza soluzione di continuità – sembra abbandonata, in queste ore che chiudono le festività pasquali. Mi sento ancora più in un altro continente, anche se sono a pochi chilometri dall’Italia. Un’isola dà sempre questa sensazione. Ti aspetteresti moschee sotto quelle Cupole, ma ci sono chiese. Ti tengono in Europa, almeno visivamente.

Nel caldo Mediterraneo di Malta un cielo opaco, una nebbia sospesa ad altezza d’uomo densa di sabbia, umidità e smog. Odore di spezie nell’aria, automobili mai viste immatricolate prima che nascessi, Skoda che sembrano Fiat 128 e Honda Civic lunghe come Volvo. Ristoratori siciliani e napoletani a ogni angolo; il napoletano e il siciliano, d’altra parte, le lingue che più rimbalzano per strada. Lingue di immigrati, più che di turisti. Nuvole di polvere, cavalloni di tre metri si infrangono sulle scogliere scure.

Malta, La Valletta

Malta, La Valletta

Malta, La Valletta

Malta, La Valletta

Valletta l’hanno costruita nel Cinquecento. La capitale nuova, città sul mare, porto e roccaforte per gli Ospitalieri. Valletta è città moderna, prima la capitale stava dove si costruivano le città nel Medioevo, non certo sul mare. Mdina è la capitale storica, arroccata in cima a un monte. Orde di turisti italiani estasiati per un’architettura monumentale che in Italia potrebbero fotografare ogni 30 chilometri, ma tant’è. Valletta non mi colpisce per un carattere particolare, ma ai miei occhi italiani è qualcosa di nuovo. Qualcosa che non è Mdina.

Malta, Europa e Africa

Malta, intrappolata al centro di una delle principali rotte migratorie mondiali degli ultimi decenni, fa i conti con la disperazione di chi scappa dalla morte – che gli abbiamo portato in casa – in cerca di una sopravvivenza che – a casa nostra – non siamo in grado di assicurare, umanamente parlando. Un po’ come Lampedusa, ma se dall’isola italiana i migranti possono sperare di essere trasferiti sul Continente (in Sicilia, in Italia), a Malta si rischia di marcire a tempo indeterminato in un’isola prigione. Perché Malta, l’Alcatraz del Mediterraneo, accoglie male, quando accoglie: non apre i porti, nega gli attracchi, detiene migranti in strutture simili a carceri per anni e anni. Non che noi facciamo molto di meglio – almeno Malta conta quasi venti rifugiati ogni mille abitanti per i numeri dell’Unhcr (in Italia nemmeno tre su mille) – ma qualcuno, nel mondo che sa leggere e scrivere, ancora si indigna per il nostro resuscitato fascioleghismo. E comunque, le guerre tra poveri ci sono sempre piaciute e preferiamo litigare con l’isoletta piuttosto che alzare la voce contro il Padrone.

Cerco i migranti in strada ma non ne vedo, in città; ne trovo giusto qualcuno isolato di notte che si trascina da un cassonetto a un altro. Centri di identificazione e permanenza, in campagna, mi guardo in giro ma non saprei come identificarli; ospedali, università e istituzioni sono indifferentemente circondati da filo spinato e muniti di torrette di controllo, qua tutto ha l’aspetto di un centro di detenzione.

Poi li trovo. Attraversando nelle ore più calde della giornata stradine ai margini di orti ai limiti di nulla, tra il Mediterraneo che a nord guarda la Sicilia e a sud si rivolge all’Africa. Si muovono veloci, nei campi di fragole grosse come pugni, si riparano dietro i muretti tra i fichi d’India, si spostano da un mandorlo a un olivo. Dalla Puglia a Malta, nei campi trovi solo loro. Africani. Li trovi alle sei del mattino lungo le vie che escono dalla città, in attesa di pick up che li porteranno sui campi e dodici ore dopo li scaricheranno con pochi spiccioli in mano.

Floriana, Pietà, Sliema

Valletta si erge alta sul mare, protetta da mura giganti. Un sistema di molteplici fortificazioni a protezione della città, il Sistema di Floriana, disegnato dall’architetto militare di sangue settempedano Pietro Paolo Floriani. La città che porta all’ingresso di Valletta, la via che penetra le mura, porta il suo nome. Floriana.

Malta, Floriana

Malta, Floriana

L’area attorno alle mura, circonvallazioni lungomare porti e porticcioli, cresce e freme. Pietà, insediamento ottomano ai piedi della capitale. Qui non ci sono turisti, qui la gente ci vive e ci lavora, qui la gente ti tratta se possibile peggio che in centro. Un motopicco in ogni casa, una betoniera in ogni via, una gru in ogni angolo. Traffico nervoso, autisti nervosi, sguardi truci e urla. Non un sorriso da un maltese in quest’isola felice. Non un maltese che da queste parti parli italiano, o almeno un inglese decente. Una collezione di lamentele, negli autobus, dagli autisti all’ultimo passeggero, quando sali con un passeggino.

Malta, Pietà

Malta, Pietà

Un’isola in cui non si trova una pescheria. Il piatto tradizionale il coniglio. A Sliema prezzi di acqua e alcool alle stelle in un lungomare di hotel neon locali e casinò, identico a qualsiasi altro lungomare turistico di qualsiasi altra località di mare turistica d’Europa. Onde si alzano violente contro gli scogli. Sparano fuochi d’artificio a qualche chilometro da qui. A qualche altro chilometro, in un mare scuro, in un’altra direzione forse qualcuno ha visto delle luci dopo troppo buio tra le onde del Mediterraneo e ha urlato qualcosa che potrebbe significare “Terra!” e questa terra potrebbe essere la fine del suo viaggio.

Malta, Sliema

Malta, Sliema

Quando l’aereo torna a scendere, dalle nuvole, a nord, dopo tanto giallo e bianco, il verde accecante dell’Umbria sotto di noi.



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