Sarajevo. Orrore e bellezza tra oriente e occidente

Bosnia Herzegovina, Balcani, agosto 2023.

Pubblicato il 18 Settembre 2023

Nemmeno il tempo di perdere di vista il Conero e dall’indaco dell’Adriatico spuntano i rilievi della Dalmazia. La costa che si sbriciola in una miriade di isole e isolette. Mare che tra montagne brulle, illuminate da un sole gentile già alle spalle, si fa subito ricordo. Balcani. Balkan significa montagna.

Capire perché questa terra sia diventata il Vietnam d’Europa richiederebbe secoli di storia in megabyte di spazio. Costantino e Diocleziano, Impero d’Oriente e d’Occidente, Roma e Bisanzio, Cristianità e Islam, Capitalismo e Comunismo, qui passa la frattura che divide l’Europa da secoli. Che sia il 1914 o il 1992, che si esploda il primo o l’ultimo sparo del XX secolo, c’è da sempre – armi in pugno o meno – una complessità difficile da ricomporre, per la quale non si è mai storicamente abbastanza preparati; psicologicamente anche meno. Di fronte alle “zampate d’orso”, i segni lasciati delle granate, nessuno lo è mai veramente.

La messa della domenica in radio nella cattolicissima Croazia e le alte montagne che coprono l’orizzonte accompagnano nella poca strada che dalla costa dalmata porta al confine. Tanti, tantissimi tedeschi per strada, tutti quelli che abbiamo perso noi nella stagione estiva. La Germania, d’altra parte, lasciando il mondo occidentale attonito, fu la prima a riconoscere l’indipendenza della Croazia con le macerie del muro ancora in strada, affamata di espandere il marco e trovare una spiaggia, la Dalmazia, per la sue estati.

Una storia che nasce da lontano

Italia e Germania aggredirono il regno di Jugoslavia a inizio aprile 1944; il re Pietro II si consegnò agli inglesi e i paesi confinanti occuparono il territorio per smembrarlo e incorporarne ampie porzioni, creando stati fantoccio guidati da collaborazionisti dell’asse. Il nazifascismo addestrò, finanziò e sostenne gli ustascia croati in funzione anti jugoslava, contribuendo a creare fanatici assassini filo occidentali, cattolici da crociata, nemici del mondo slavo ortodosso.
Istria e Dalmazia, fino a Spalato, erano già italiane, poi l’Italia annesse la provincia di Lubiana e creò un regime di occupazione nel Montenegro, quindi occupò il Kosovo per farne un’appendice dell’Albania italiana.
La popolazione jugoslava ortodossa insorse, montenegrini e serbi si ribellarono contro gli occupanti e si svilupparono due correnti di resistenza: i Cetnici, lealisti monarchici ortodossi, e i Partigiani comunisti, proletari marxisti guidati da Josep Broz detto Tito.
L’inaffidabilità dei cetnici e la violenza nazionalista degli ustascia portò gli alleati, nell’estate 1944, a riconoscere come unico referente il movimento partigiano di Tito. E Tito ebbe la meglio. Governò la Jugoslavia – sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni e due alfabeti – fino al 1982, non allineandosi a URSS o a USA, nel segno di Unità e Fraternità. Amato, sotto sotto, da tutta la popolazione complessa, che alla sua morte ha visto infrangersi quel sogno apparente che Tito teneva in piedi chiamato Jugoslavia.

Bosnia Herzegovina

Bosnia Herzegovina

Entrare in Bosnia Herzegovina, attraversare una frontiera – una frontiera vera, con i soldati di entrambi gli eserciti a pochi metri uno dall’altro – dopo tanti anni, fa uno strano effetto. L’autostrada finisce, una strada nuova di zecca croata senza macchia sfocia in una stradina di montagna tutta curve e battistrada imbrecciato che sale tra cave e orridi, bandiere strappate e cantieri abbandonati, indicazioni in cirillico poi in arabo, pendii che si arrampicano fino a un valico sotto al quale spuntano i primi minareti, all’ombra delle croci sulle vette. Mostar. Moschee accanto a orribili chiese ortodosse e croci latine che svettano dai campanili alti e bianchi.
I burqa in una terra che percepisco musulmana, perlopiù, che i croati hanno sempre rivendicato fino a demolire nel 1993 a cannonate lo Stari Most, il Vecchio, ponte ottomano medievale emblema di convivenza. Qualche brutta faccia, tanti rom, un po’ di turisti, bambini senza futuro con le sigarette in bocca a chiedere l’elemosina, prezzi che non vedevo dai tempi delle lire.

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Mostar, Ponte vecchio

Dissoluzione della Jugoslavia

Il Paese, dopo Tito, resse una decina d’anni, nemmeno. Il complesso meccanismo di presidenza di turno della Jugoslavia e le tensioni nazionalistiche mai sopite che sotto la cenere aspettavano il momento giusto per tornare in superficie, il crollo del muro e una serie di contingenze spinsero la Slovenia, per prima, nel 1991, a dichiarare la sua indipendenza dalla federazione Jugoslava. In Slovenia praticamente non c’erano serbi, e Belgrado lasciò correre – dopo una decina di giorni di bombardamenti – quando gli altri stati europei, il Vaticano e gli USA la riconobbero. La Croazia, preso atto del successo ottenuto dal vicino, la seguì poco dopo.
Ma dove c’è un serbo è Serbia, per Belgrado. E in Croazia c’è n’erano.
Scoppia la prima – prima si fa per dire – guerra seria tra esercito della Jugoslavia e Serbia contro uno stato ex jugoslavo. Le minoranze serbe in terra croata insorgono e si dichiarano a loro volta indipendenti, si assedia Vukovar, cadono bombe su Dubrovnik. Cinque mesi di atrocità da entrambi i fronti poi la guerra, dietro i cessate il fuoco, si fa strisciante; finché nel 1995, con l’ultimo attacco, la Croazia riconquista tutte le sue terre e chiude la faccenda da vincitrice.

Acqua e boschi, nell’entroterra che risale la Narenta verde turchino, stretta tra i monti che adombrano l’orizzonte precipitano le temperature estive asfissianti della costa in pochi chilometri di tanti gradi. I maiali allo spiedo in grandi girarrosto lungo la strada, alti sul fiume che sembra un lago.
A Konjic, una cinquantina di chilometri da Sarajevo, i primi segni di granate sulle pareti dei palazzi abbandonati. Mi dico Ma no, trent’anni dopo, poi così lontano dal capoluogo… penso che avrei dovuto arrivare più preparato, ma oltre Adriatico gli strumenti per farlo sono un conto, il cemento martoriato tra le montagne un altro. E sì, quelli erano segni lasciati dai mortai.
L’Herzegovina è un’immensa unica montagna scavata da vallate e interrotta da altopiani, paesaggi da mozzare il fiato, inverni infiniti. Ogni tot chilometri una chiesa, un pagliaio, una moschea, due case e una scuola fanno un villaggio. Qualcuno lavora la terra aspra, qualcuno aspetta un autobus, qualcuno aspetta e basta, per strada. Al confine pickup riempiono taniche di carburante (che costa la metà dell’Italia) e comprano scatoloni di stecche di sigarette (idem).

L’assedio di Sarajevo

Ho avuto un’ansia indescrivibile nel tirar giù questo reportage, per chiuderlo, pubblicarlo e liberarmi quasi catarticamente di quelle immagini. Ma non mi sento meglio. Sono passate settimane e ancora rivedo quelle scene, e quando non le rivedo, masochisticamente, le vado a cercare. Un assedio in era contemporanea ha qualcosa di brutalmente attraente, nel carico di morte che porta, in quell’astoricità inspiegabile, nell’incredulità che suscita in occhi estranei come i miei catturandoli.

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Sarajevo, Skenderija

Sull’onda della distruzione del muro e delle azioni dei vicini stati ex Jugoslavia, la Bosnia Herzegovina proclama un referendum per dichiarare la sua indipendenza. L’affluenza alle urne è del 63,4%, di cui il 99,7% vota a favore dell’indipendenza. L’intera componente serbo-bosniaca resta a casa, boicottando il referendum. È il primo marzo 1992. Si sente già in quei due giorni, per strada, che qualcosa di brutto sta arrivando, a Sarajevo. Nella notte spuntano i check point, barricate, fucili e controlli in strada. Non ci si fida più tra vicini, bisogna controllare che nessuno faccia qualcosa per incolpare l’altro e accendere una scintilla. Che purtroppo è già stata incendiata.
Il parlamento bosniaco ha tre rappresentanze, quella serba, quella musulmana e quella croata. Radovan Karadžić (per i serbi di Bosnia), nell’aprile 1992, è ancora seduto alla triplice presidenza insieme ad Alija Izetbegović (per i musulmani) e Stjepan Kljuić (per i croati). Quando il 6 aprile 1992 la Comunità europea riconosce la Bosnia Herzegovina come stato indipendente i separatisti serbi dichiarano a loro volta la nascita della Repubblica Srpska. È l’inizio della fine.

L’aria del mattino di Sarajevo è fresca, profuma di pane e fiori. Pulizia e ordine retaggio dell’impero austro ungarico smentiscono il pregiudizio su una grande città che mi aspettavo molto più degradata. Il sole fatica a scavalcare le alture delle Alpi dinariche, una città che si allunga sulle rive del bronzeo Miljacka, stretta tra montagne che tanti mesi dell’anno sono innevate. I richiami dei muezzin si rincorrono dai minareti.
Le zampate dell’orso, gli sfregi lasciati a terra e sulle facciate dei palazzi dai bossoli dei mortai, sono un po’ ovunque, ancora. Boulevard da otto corsie e grattacieli attorno all’Holiday Inn, l’albergo che sembra una costruzione Lego comunista, famoso per aver ospitato i giornalisti durante l’assedio.

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Sarajevo, Miljacka

A inizio aprile 1992 Sarajevo è invasa da manifestazioni con i ritratti di Tito per chiedere la pace tra i popoli e ai leader Karadžić e Izetbegović di recuperare in extremis la situazione. Manifestano ortodossi e musulmani, serbi e bosniaci, anche dal resto del Paese. Il centro è già blindato, i cecchini aprono il fuoco. Da qui, indietro non si torna. Acqua, gas e luce, telecomunicazioni e trasmissioni vengono interrotte dai serbi che, anzitutto, si sono impossessati delle infrastrutture. Dal medioevo ai Novanta non sono cambiati, gli assedi. Sulle alture intorno alla città si piazzano 35mila soldati, con 35 bocche di fuoco ogni chilometro. La città sopravvive con una piccola sorgente interna e gli aiuti internazionali delle Nazioni Unite che hanno accesso all’aeroporto. La carne scompare in pochi giorni e gli assediati la dimenticheranno, come molte altre vivande. Ogni davanzale diventa un orto. Gli uomini non possono più lasciare la città; donne e bambini hanno a disposizione qualche convoglio per andarsene, ma le possibilità di farcela sono poche.
Quello che è successo in Croazia è dietro l’angolo, e a Sarajevo lo sanno che c’è la possibilità avvenga anche lì. Quello che non sanno è che sarà tanto, tanto peggiore. 1.425 giorni di assedio, un pezzo di artiglieria ogni 35 metri, 300 esplosioni al giorno.

Sarajevo, mappa dell’assedio

Il quarto esercito al mondo aggredisce un piccolo popolo senz’armi: l’esercito bosniaco sembra uno scherzo, ragazzi senza addestramento, senza divise, senza esperienza. I serbi sono una forza armata seria, affiancati dall’ex armata popolare jugoslava che in realtà è composta quasi esclusivamente da soldati serbi, ma i bosniaci che resistono hanno coraggio, determinazione, lottano per la loro terra. Poi arrivano i mujaheddin dall’oriente, le bandiere nere dell’Isis, i soldi da Germania, Turchia, paesi arabi e famiglia Bin Laden, armi da tutto il mondo per ogni schieramento, che quelle non hanno mai scartato grasso nei conflitti. Ma i rapporti di forza sono squilibrati, Sarajevo, o almeno la sua popolazione civile, può solo incassare: 12.000 morti di cui 2mila bambini, 50.000 feriti, il 90% civili. Questi gli esiti del più lungo assedio degli ultimi secoli.
Vent’anni dopo, per ricordare le vittime, hanno disteso seggiole rosse vuote lungo al via principale del centro, viale Maresciallo Tito. In fila per quattro, una dietro l’altra, le seggiole hanno coperto più di mezzo chilometro di strada.

Testimoni dall’inferno

«Non so come abbiamo fatto a vivere due anni in uno scantinato. Non mi rendo ancora conto di come siamo sopravvissuti, di come possiamo raccontarlo. Cibo poco o nulla, chi aveva soldi riusciva a fuggire, gli altri non potevano muoversi. In venti in dieci metri quadrati sotto terra, quel poco per sopravvivere transitava assieme a armi, mercenari e droga dal tunnel sotto l’aeroporto che ci misero mesi a scavare. Un’automobile costava due marchi (e comunque non si trovava carburante), un chilo di zucchero ne costava dieci».

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Sarajevo, Markale

Ho chiesto a una ragazza di raccontarmi gli anni Novanta a Sarajevo, tra un’informazione e l’altra sulla città. L’ho vista più o meno della mia età, e infatti era adolescente quando scoppiò la guerra e iniziò l’assedio. Mi guardo intorno e penso a tutta questa gente, in giro, che quella cosa lì in quegli anni l’ha vissuta. Penso a come possa vedermi questa ragazza, a come una sopravvissuta possa vedere chi non fu coinvolto. Penso a come si possa tornare a vivere dopo quello, a come si superi, a come ci si conviva. Penso ai bambini, ai neonati di allora, alle privazioni nella crescita, ci penso da padre, alle conseguenze sul loro sviluppo, ci penso e non me ne faccio una ragione. Penso a come si possa convivere con chi, ieri, sparava ai tuoi bambini da un tetto perché un bambino colpito si portava dietro il genitore ed erano due bersagli facili, e oggi vive magari nel tuo stesso quartiere o isolato, per quanto ne siano rimasti pochi, di serbi, ovviamente, in città. Penso a quanta roba pesante puoi portarti dietro dopo quella storia e quanto sia facile che presto o tardi questa roba ti rompa quell’equilibrio forzato e precario che ti sei ricostruito e ti faccia perdere, definitivamente e per sempre, il lume della ragione. Penso che fortuna sia che quasi non ci siano alcolici in città.

Sarajevo, Spielplatz

La grande Serbia di Milošević punta a creare uno stato serbo ovunque ci siano serbi, o serbi siano morti.
Milošević e Tuđman (Presidente della Croazia), in un nuovo Molotov-Ribbentrop, cercano di spartirsi la Bosnia Herzegovina, in una guerra che non scoppia per caso ma è da un bel pezzo in preparazione. Poi il vento della guerra va dove vuole e vuole lontano.
Gli Stati Uniti sono troppo impegnati in Iraq per dedicarsi ai Balcani, dei quali in casa importa poco. La NATO ci metterà tre anni ad intervenire (legittimamente?), aspetterà Srebrenica, l’ultima goccia di sangue che fa traboccare l’incapacità dell’ONU, lasciando che i musulmani vengano massacrati. Questo all’opinione pubblica non sembra importasse. Se la jihad è nata lì c’è un perché. Per gli USA, che da sempre si sono eretti a difensori dell’Occidente, è più pericoloso Saddam Hussein che vuole il petrolio del Kuwait di Karadžić, Mladić e Arkan che stanno sterminando i musulmani d’Europa.
Nella guerra di Bosnia, i Serbi attuano misure di pulizia etnica là dove decenni prima erano stati vittime dello stesso trattamento da parte dei musulmani, ora al servizio dei sanguinari ustascia che inorridirono perfino i nazisti, ora inquadrati nelle SS in Bosnia, ora nelle fila degli integralisti croati bosniaci. O ancora prima, negli eserciti ottomani alla Piana dei Merli, battaglia medievale che segnò l’inizio dei conflitti tra popolazioni che poi, periodicamente, si sono sgozzate tra loro. E non in senso figurato. “Un ciclo macellati, un ciclo macellai”. Un tutti contro tutti che ogni volta cerca vendetta da torti più o meno antichi.
I Balcanici sono così, non perdonano e non dimenticano. Conflitti medievali riescono a produrre effetti violentissimi sei secoli dopo; stragi che vennero sotterrate senza giustizia, dopo la seconda guerra mondiale, per guardare oltre, nei Novanta sono state scoperchiate e utilizzate come legittimazione per altre stragi. La vittoria non basta: si cerca l’annientamento del nemico, ma il nemico non è un esercito, è l’intera popolazione. Croati, serbi e musulmani si equivalgono in quanto a ferocia e sanguinarietà, nella storia. Sarajevo è stato solo l’ultimo atto, in senso temporale; ma non sarà l’ultimo. Purtroppo no.

Museo dell’orrore

L’app turistica della città dedica un percorso alla guerra. Non servirebbe nemmeno, basterebbe guardarsi intorno. Non volevo entrare nei musei tematici, sapevo che ne sarei uscito turbato. Tutta la città, a dirla tutta, mi ha segnato, me ne sono andato dopo qualche giorno con un peso addosso che per giorni non mi ha lasciato. Sarajevo è un pugno nello stomaco col sorriso, un centro storico incantato circondato da cimiteri con lapidi a perdita d’occhio. E in quanto ai musei, non ci sono riuscito a starne fuori, un museo sull’assedio mi ha risucchiato. Le zampate d’orso per strada, al mercato, sono state riempite di resina rosso sangue, trasformate in monumento, in ricordo perenne. Durante l’assedio ci si metteva in fila per il pane o per riempire le taniche d’acqua. Si diventava bersagli facili, e lì i colpi di mortaio facevano stragi. Quelle taniche sono in mostra, bottiglie tagliate a fare da imbuto per riempire più velocemente ed esporsi meno tempo ai cecchini. Foto di autobotti e camion umanitari nascosti in trincee di rottami di automobili o sotto i ponti. Testimonianze e racconti, documenti e documentari. Riprese in strada di allora a rotazione. Le automobili col baule aperto dopo la strage di Markale, il mercato, per trasportare i corpi o i loro resti in un ospedale dove mancavano bende, medicinali, anestetici, letti, medici. Dopo il secondo massacro arriva la NATO, e l’assedio allenta la morsa. I carrelli improvvisati coi bob a rotelle, coi passeggini, con le biciclette, con qualsiasi suppellettile per trasportare le taniche.

Non ci sono quasi alberi maturi, a Sarajevo. Sono stati tutti tagliati per scaldarsi in inverno. Non c’era più un vetro che non fosse infranto dai proiettili, e l’inverno a Sarajevo significa neve, neve, neve. Si bruciano i mobili, i parquet, le panchine. Poi i libri. Per scaldare l’acqua ad uso alimentare e tecnico serve calore, si vive con fornelletti e stufette a legno lontano dalle finestre, facile bersaglio dei cecchini. Perlopiù sottoterra, i piani alti sono i più vulnerabili. Quando hanno costruito le case sembra già immaginassero cosa sarebbe successo, tutte le abitazioni dei musulmani hanno un seminterrato o una cantina. Foto di anziane che con l’accetta spaccano panchine in strada per cuocere su una lastra di alluminio sopra al fuoco in un androne delle scale di un palazzo. La prima regola in un assedio è non buttare nulla, pentole diventano stufe, barattoli pentole.
Le foto desaturate degli anni novanta, quelle riprese scolorite, quell’abbigliamento vintage della gente che scappa, che corre per strada, per raggiungere un muretto, o un blindato delle Nazioni Unite, o una via di fuga da un inferno che non ne offre.
Orgoglio, testardaggine, resilienza. Spirito di sopravvivenza. Così ce la fece, Sarajevo. La vita in città non si fermò, nonostante le condizioni estreme. Niente uffici, né scuola, né bus, ma qualcosa si ostinò: un tram, la birra, un concerto improvvisato, un quotidiano di due pagine con un numero di giornalisti che dal ‘92 al ‘95 si decimò.

Sarajevo, Trading center

Nostalgia è la parola chiave

Oggi, in quello che era il Viale dei cecchini (Snajperska Aleja, Ulica Zmaja od Bosne), là dove le torri bruciarono colpite dal fuoco serbo, ci sono centri commerciali, grandi catene, gli stessi brand del resto del mondo. Mi chiedo come fosse vivere qui ai tempi di Tito (che comunque un minimo permetteva di uscire, diversamente da altri regimi), ancora prima che durante l’assedio, quando non c’era nulla oltre l’uguaglianza dei piani quinquennali. Tito non temeva le religioni, promuoveva matrimoni misti – seppur per “appiattire” le differenze – e lasciava libertà di culto, a differenza di qualche suo vicino di blocco, perché sapeva bene che sarebbe stata l’identificazione etnica, di cui la religione era solo uno strumento, a fottere la Jugoslavia. Mi dicono che oggi Sarajevo, che fa un po’ più di 300mila abitanti, è la destinazione di tutta la Bosnia, che si sta spopolando; in effetti, una volta fuori dalla città l’abbandono è ovunque. Pensare quanto avrebbero pagato, trent’anni fa, chissà quanti per riuscire ad arrivare a nascondersi in uno di questi paesetti quasi fantasma.
Quella di oggi non è una pace, ma una tregua che dura da trent’anni. Gli accordi di Dayton hanno solo confermato l’esistente, una Repubblica Serba e una Federazione Musulmana, in Bosnia, con bosgnacchi e croati separati in casa, tra Sarajevo e Mostar. Giusto qualche concessione, come Goražde, enclave inclusa durante gli accordi con un disegno di una mappa schizzata su un fogliaccio senza nemmeno una strada per arrivarci. La pace ha fotografato e istituzionalizzato i risultati della pulizia etnica e incoraggiato il disegno di uno stato islamico in piena Europa; la Bosnia Herzegovina è uno stato obbligato a restare insieme solo dalla comunità internazionale. Dei tre presidenti degli stati di allora solo uno è stato portato in tribunale, gli altri sono morti nei loro letti; la Serbia avrebbe dovuto provvedere internamente a far giustizia, ma ovviamente non è stata fatta. I presupposti per una pace duratura, o una tregua solida, evidentemente non ci sono.
Dopo la pace del ‘95, a Sarajevo sono morti in tanti, tanti di quelli che erano sopravvissuti, negli anni immediatamente successivi. Come se aspettassero di uscirne vivi, per morire. Depressione e malinconia traspaiono dalle persone, dai loro sguardi, dai loro volti grigi. Sembra quasi che parte dell’identità della città sia costruita sul vittimismo, una città-memoriale che celebra ovunque il ricordo della tragedia. In strada c’è una sensazione strana, come un’ansia diffusa, una sorta di allerta psicologica, di quelle che fanno pensare che una nuova guerra fosse alle porte. Magari è solo un’impressione. Magari.

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Bibliografia (e non solo) consigliata:
Francesco Battistini, Marzio G. Mian, Maledetta Sarajevo: Viaggio nella guerra dei trent’anni. Il Vietnam d’Europa, Neri Pozza, 2022, una pubblicazione recente di due giornalisti che hanno calpestato la terra maledetta negli anni maledetti; Le Marlboro di Sarajevo, libro di Miljenko Jergovic pubblicato da Bottega Errante Edizioni nel 1994, per non pensare alla guerra dentro la guerra.
Informazioni sulla situazione sociopolitica del Paese sono disponibili aggiornate e attendibili su East Journal e Osservatorio Balcani Caucaso, ma in trent’anni, sul web, è fiorita una sitografia pressoché infinita sull’arogmento con documenti di ogni tipo.
Aumentando multimedialità, il podcast di Bottega Errante Edizioni, Blokada. Sarajevo, la civiltà sotto assedio, in più puntate, non tralascia nulla; Joe Kubert, Fax da Sarajevo, 1996, e Joe Sacco, Safe Area Goražde, 2000, sono due graphic novel da non perdere, magari mentre si ascoltano i CSI, con Cupe vampe (Linea gotica), 1996. Il documentario di Toni Capuozzo, Ritorno all’inferno: 1992-2022, Mediaset, 2022, è commovente a agghiacciante allo stesso tempo.
Infine Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi, che con Sarajevo c’entra poco ma ha voluto la sorte fosse lui a farmi compagnia in terra balcanica.



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