Elcito. Tra cielo e lecci, da un fine Millennio all’omologazione

Un po' amarcord un po' polemica, torno a Elcito vent'anni dopo per trovarlo bene, ma peggio.

Pubblicato il 2 Settembre 2020

Da vent’anni non tornavo a Elcito. Non so dirlo perché, quel paesetto è sempre stato lì a due passi, c’ho girato intorno per anni ma per qualche azione centrifuga sono trascorsi due decenni e due figli e solo oggi mi ci sono riarrampicato.

Sono nato e cresciuto a Sanseverino, Elcito è un suo castello – se di castello, come lo intendiamo noi che il medioevo come lo intendiamo noi lo proiettiamo ovunque, si può parlare – e fin da bambino venivo qua, il 16 agosto, per la festa di San Rocco suo patrono.
C’erano le pignatte e le bancarelle e la porchetta sui prati, in cima al crinale salivamo a cavalcioni di cartoni e scivolavamo giù per il pendio a tutta, ferendoci sui cardi e rotolando fino a non rialzarci quando il cartone si strappava.

Sul finire del millennio, in agosto innalzavamo tende su quel campo e ne facevamo la base per spostarci da Canfaito a Pian dell’Elmo coi motorini. Come tramontava il sole la temperatura crollava; durante il giorno, a quasi mille metri, il sole bruciava. Ricordo un’eclissi di sole, un anno, e una strana luce fredda per qualche minuto, su quello sperone di roccia. Come ricordo il serbatoio vuoto dello scooter che ci lasciò a piedi a Aliforni e ci costrinse a raggiungere la città a un’ora inenarrabile con un sole inclemente. Non un veicolo incrociammo. Ma eravamo giovani.

Elcito rappresentava la vacanza selvaggia. Un gruppo di case abbandonato in cima a uno sperone alle pendici del Monte San Vicino. I mille metri a due passi, l’alta quota e i pascoli. Le mucche e i tafani. In quegli anni alla fine dei Novanta erano rimasti in cinque a viverci. Cinque vecchi, in inverno. Il primo alimentari a dieci chilometri.

Noi ci andavamo, ogni tanto, quando non era agosto. Portavamo da bere e finivamo la storia lì. In piazzetta o sui pascoli, lontano da tutto e tutti, lo sguardo dal Conero agli Appennini, gli echi di battaglie di Resistenza e il Musone che scorreva silenzioso a valle. Anche in estate, alla fine, ci riparavamo lassù, quando non se ne poteva più a valle. Ancora eravamo in pochi a conoscere quel paesino, le cui storie della gloriosa vecchia guardia ci erano state tramandate e ci sentivamo un po’ custodi di quello spazio senza tempo.

elcito

Elcito oggi e Lu Citu che fu

L’ho ritrovato bene, vent’anni dopo, Elcito. Non l’avevo lasciato proprio bene, ma bene non è mai stato, per come bene si intende oggi. Non sarebbe stato dimenticato e abitato da cinque centenari, altrimenti.
Dicevo, bene. In salute, restaurato, pulito, accogliente. Indicazioni turistiche e bagni pubblici. Omologato, ma bene.

Un’aria moderna artefatta. Baracche allora oggi BnB, parcheggi, un bar addirittura, case in pietra ristrutturate e orti che si sono allargati sui campi dove piantavamo le tende da pischelli. La fonte dove si abbeveravano le greggi e noi, unica acqua a disposizione a Elcito, una volta, ormai secca.
Quell’atmosfera da XX secolo, fatta di essenziale povertà dall’aspetto decadente da dopoguerra, in scala di grigi, mura scrostate e gramigna tra i sampietrini, ormai offuscata dagli standard contemporanei di dehors in legno bianco e shabby chic.

Turisti. Ancora turisti. Pure stranieri, che ormai questa marca appenninica è cool. Io li odio da quando lavoravo allo IAT, e per fortuna allora ce n’erano pochi, come pochi ritorneranno ad essere domani. Odiavo il loro irrispettoso essere turisti in quanto tale e in quanto io, lì, dovevo viverci e questi non immaginavano quanto odio portassi a quel posto.

Dubito tra un mese ci sia più nessuno. Un po’ ci spero, anche. I cinque abitanti di una volta saranno morti. Da bambino ce n’erano decine, ma tutto l’anno. A Castel San Pietro l’ufficio postale, il tabaccaio, un medico addirittura. Sul dorso di un mulo la strada si faceva in poco tempo, e nessuno aveva la fretta di oggi.

In questa estate dallo strano turismo che ha riscoperto l’entroterra speravo Elcito fosse rimasto fuori. No.
Tutta questa gente in montagna non si era mai vista. Sinceramente, questa moda – perché è una moda, quindi, per fortuna, tra un po’ scomparirà – mi atterrisce. I cinghiali banchettano tra le immondizie abbandonate per strada da questi escursionisti della domenica. L’eliambulanza a giorni alterni si alza per soccorrere disinvolti alpinisti contusi in fondo agli orridi.

In una mattinata di fine agosto ho trovato decine di turisti da Nord a Sud Italia a farsi selfie nel vicolo che attraversa queste quattro case di roccia e pietra e a scervellarsi sull’origine ispanica o orientale del toponimo.
È dialetto. Dialetto puro, settempedano. Elcito è Lu Citu, cioè ‘U Liccitu, il lecceto, i lecci (la quercia, l’elce, quercus ilex) a bosco ceduo di macchia mediterranea che una volta, nonostante l’altitudine, probabilmente ricopriva il pendio e dava lavoro ai carbonai.

Mi sono seduto sulla pietra gelata della piazzetta, fresca dell’escursione termica spropositata dei mille metri, a godermi i ricordi. A spaventarmi al loro cospetto.
Quell’alba col sole che si alzava dietro Elcito dopo la traversata notturna da Pian dell’Elmo senza una luce su una sterrata di una difficoltà che oggi mi metterebbe seriamente pensiero da sobrio e in quel fine millennio sobri non si era.
Quelle ombre farsi lunghe in bilico sul muretto, i rapaci che volteggiavano nel vuoto altissimo, le confessioni.
L’abbazia di Valfucina e il fuoco del passaggio.

elcito Brutta storia la vecchiaia.
Elcito era una delle poche photo opportunity – sì, già allora – in cui si estraeva dallo zaino la fatocamera analogica economica, gli ultimi anni anche con autoscatto, e si scattava con parsimonia. Si fotografava solo quello che valeva, un tempo.

Vide lungo, il Palio dei Castelli, quando spostò qua le serate medievali. Filologicamente parlando, questo castello non era il massimo per ambientare una rievocazione storica di quel tipo, ma l’impatto fu elevato. Elcito fu invaso di pubblico. Quelle serate le tenevamo in città, al Castello al Monte, sotto la Torre nel piazzale degli Smeducci. Era quello il setting adatto, da urlo tra l’altro, ma dei settempedani non c’era mai traccia. Sarebbero dovuti salire a piedi (dieci minuti dalla piazza) o con la navetta, e non ce n’era.
Poi porti la manifestazione a mezz’ora di macchina dal centro, con un dislivello di mezzo migliaio di metri e senza servizi e fai tutto esaurito. Turisti, anche. Strana, la gente.
Arrivarono addirittura campagne elettorali a farci feste. Porchetta e mongolfiere. Partiti politici che allora galleggiavano sullo zero virgola e oggi governano.

Lavoravo in un’agenzia di comunicazione, tanti anni fa, quando mi inventati Tra Elcito e il cielo come nome di un piccolo BnB che voleva nascere a Elcito e farsi una comunicazione coordinata. Ci sembrava assurdo, a noi a 236 mslm per i quali gli ottocento e rotti sul mare erano già alta quota, che qualcuno volesse soggiornare tra i lupi. E invece.

Il Tibet delle Marche. Ma per favore

Oggi me lo trovo definito Il Tibet delle Marche. Pensa te. Per noi era quasi un Molise.
Travel blogger ci scrivono reportage. Elcito ha una pagina su Wikipedia. Lo stellinano su TripAdvisor, dove con centinaia di recensioni è la prima attività consigliata da fare a Sanseverino.
Ora, io sono settempedano e da bravo settempedano odio Sanseverino, ma posso consigliarne di cose migliori di Elcito, in città. Temo che chi abbia visitato e recensito Elcito, Sanseverino lo abbia appena letto sui cartelli stradali.

Il paradosso di queste centinaia di turisti che vengono a cercare il silenzio, quassù, ora. Ora. Ma per favore.
Qua, distanti dal mare, dove mancano case, ospedali, scuole, strade, infrastrutture, rappresentanti politici e, soprattutto, elettori; dove ormai si può solo morire, il vostro turismo non porta nulla, e nulla vi resterà di quella foto a ottocento metri di altezza in cui vi meravigliate che “qua non c’è nulla, che bello“.
Ecco, lasciate il posto al nulla col quale conviviamo più o meno da decenni, perché, con buona pace dei complottisti, a nessuno interessano queste terre, nemmeno per speculare o costruire su una tabula rasa. L’unico interesse di mercato e sciacalli è continuare a pompare gente e soldi sulla costa. Che a me va pure bene, in pochi si sopravvive meglio (è l’evoluzionismo, bellezza), ma ecco, con tutti i balocchi e la movida e li sordi la gloria lo nero alla foce di Chienti Potenza Musone e Esino, cazzo venite a fare su questi sentieri che non portano da nessuna parte.

Il cielo è vicino, comunque.
Ancora.
Gli avventori cercano caffè macchiato freddo in vetro. Elcito sopporterà questa ondata, che passerà, se ha sopportato noi a suo tempo.

E il cielo tornerà a schiacciarci sui prati in cerca di orizzonti lontani.



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