Venga Giona

Post dall'aroma robusto e nauseabondo. Lettura sconsigliata in generale a chiunque, in particolare a personalità sensibili.

Pubblicato il 29 Novembre 2012

“Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona; Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti” Giona, 2:1

Diciamo che è servito a me. Nell’ebbrezza del sito in costruzione, come ogni italico webdesigner che si rispetti, mi ci sono avvolto per mesi. D’altra parte, altro da fare ce l’avevo, addirittura anche un lavoro per quanto precario ma so riconoscere il lusso quando si ha un curriculum così poco onorevole come il mio, quindi il bisogno di spammare webfolio per il web era direttamente proporzionale al tempo per farlo. Poi la festa è finita. Ammesso che da festeggiare ci sia stato poi nulla. Quindi inverto la clessidra per l’ennesima volta e ricomincio il giro. O lascio che il giro ricominci, poi lo raggiungerò se va bene se no se la caverà anche senza di me. Prendo il primo punto cardinale utile e orizzonto là lo sguardo, questo sì, più per disperazione che per tattica. Senonaltro con un template appena dignitoso, se mesi dietro quall’agghiacciante iMac m’hanno insegnato qualcosa. Oltre che la pazienza, le ore di lavoro, le classi, i limiti da sfondare e gli errori non sono mai troppi. E che quando non gira, a cercare un’altra strada guadagni sempre tempo. E, pure, che al tempo non sopravvive nulla. Ma questo lo sapevo anche senza arrivare a tanto. C’è stata un’estate, di mezzo. Lunga appendice dell’inverno, che dai sintomi mi ero prefigurato ben altra cosa. In mezzo – più che altro attraverso, anche se non ho capito chi fosse soggetto e chi complemento – la balena di Melville. Nella traduzione di Pavese, nell’edizione Adelphi dell’87. E il libro di Giona. Quel grosso pesce che se lo tiene dentro tre giorni e tre notti, quell’Ismaele che solo sopravvive per raccontarla come Giobbe, quella piccola apocalisse di Matteo e di tutto questo non resterà che pietra su petra diroccata. So che le coincidenze concettuali sono state troppe, troppo perché non dedicassi a tutto questo qualcosa di durevole, qualcosa che con un colpo di coda spazzasse l’antecedente per lasciare emergere questo tema che dal profondo succhia ispirazione, dalle ore più dense si nutre, dalle prospettive abbatte i limiti, dal passato non impara e dal futuro non s’aspetta nulla. Il sole era in gemelli, al colpo di machete. Oggi sta attraversando stanco il sagittario e questo sito sta appena e indignitosamente in piedi in beta. Fuori c’è neve. Il mercurio è sprofondato. Sognavo atmosfere tropicali, cieli di un azzurro dolcissimo, il doppiaggio di Capo Horn, mare aperto. Niente. Solita tramontana medioadriatica sotto prevedibili banali cieli grigi appenninici. Quando rifletti sul tempo che è passato, dopo che ne è passato tanto, pensi subito due cose: che hai aspettato troppo – e su questo ormai non si può intervenire più – e che ogni pensiero finalizzato che da lì andrai ad estrarre è un pensiero già pensato, ma non avendolo pensato allora come tale devi scinderti tra il desiderio di raccontare quelle impressioni sul tempo trascorso – o passato, l’orrore del sinonimo – e la paura di esprimere ovvietà con un ritardo inaccettabile, non aggiungendo più nulla ad un discorso costruito altrove e allora. Una scissione da cui uscirne lacerato è la migliore ipotesi. Dopo tanto, sono così crivellato dal tempo perso che nemmeno associo più a quella causa la sconfinata conseguenza che è questa quieta, disperata, intensa, muta e feroce procrastinazione. Certo che non avrei voluto fosse stata questa la sintesi della spinta che m’ha fatto riscrivere questi mesi. Avrei voluto parlare del buio spaventoso, coste e terrori, la bocca dell’inferno che chiude Giona – diretto all’estremo opposto – mentre disperato si rivolge al suo Dio, liberatore tremendo e divino, potenza e misericordia. Avvolto da alghe e flutti, peccatore eletto, castigato, pentito e liberato. La speranza fallace di una nave fatta da uomini che lo conduca dove non regni Dio. Stretto nella più angusta delle segrete delle viscere della balena – del grosso pesce, che non sarebbe potuto essere stato altro che la balena. Anche questo c’ho messo mesi ad ammetterlo. Una metafora che me ne ha spiegate a cascata tante – non piange né si lamenta. La punizione è meritata, lo sa. Il pentimento sincero è grato del castigo. E Giona, battuto e sconfitto, vomitato sulla terraferma, l’infinito dell’oceano ancora mormorante nelle orecchie, Giona fa il suo dovere e il Suo volere. Predica la verità, in faccia all’errore. Questo avrei voluto. Contestualizzare un pezzo piccolopiccolo di un libro enorme in una situazione oggi direi insignificante e allora avrei detto edificabile ma ci si invecchia e niente migliora con gli anni negli umani dopo gli -enti, dare un nome alle cose come fanno gli intellettuali, una forma agli eventi, un’interpretazione alle similitudini con una disinvolta pretesa, invece, qui e ora, nella percezione acustica monomaniaca delle intermittenze, con tutta la portata del sole intrappolata nella memoria di uno sguardo, l’asfalto che ha trattenuto il fiato almeno due lune fa, il mezzotono-tono spigoloso dei rintocchi, ogni seconda opportunità negata, l’impatto esattamente come e quando non me l’aspettavo, il tempo perso che non mi fotte più un cazzo di cercare e la consapevolezza che nulla è per sempre se non l’attesa, con in mano un banale, mediocre agglomerato di inutili codici binari dietro al quale nulla di speciale, oltre il quale ancora meno, chiudo il progetto con un unico obiettivo. Demolirlo prima possibile. D’altra parte, se non sai cadere camminerai sempre con la paura.



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Qualcosa in merito
  • Monica dice:

    Torno oggi. Un pò per caso, e un pò no.
    E’ cambiata la forma, ma la sostanza resta sempre quella, fortunatamente.
    Hasta siempre.

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