Tra Occidente e Oriente

Istanbul, tra un anno e l'altro, tra Europa e Asia, tra progresso e tradizione (pt.II)

Pubblicato il 14 Gennaio 2014

L’acqua del Bosforo è incredibilmente limpida. I gabbiani inseguono le imbarcazioni dal mar di Marmara fino al mar Nero, non una spiaggia lungo le rive dei due continenti, gli skyline interrotti dai tagli dei grattacieli tanto in Europa quanto in Asia. Le campate infinite dei ponti – il primo sul Bosforo, di un chilometro e mezzo, quando fu costruito era il ponte sospeso più lungo del mondo fuori dagli USA – sotto le quali passa il battello pendolare sono vertiginose.sultanahmet Le navi portacontainer spostano giganti box made in China attraverso medio Oriente e Russia, direzione Dardanelli, fino in Europa. Più si risale, più le coste si fanno militarizzate e brulle, enormi bandieroni rossi con la mezzaluna nazionale le punteggiano tra gli sparuti villaggi di pescatori immobili a decenni fa, vicini i bastioni oltre i quali s’allarga il grande mare interno.

ortakoypontebosforoIl silenzio solcato dai versi dei gabbiani si sporca, si dimentica quando i mezzi lasciano le rive fredde del Bosforo, direzione Beyoğlu. Fuori dal centro storico e lontani dalle acque che spaccano i continenti ogni magia si infrange. Civiltà europea dai centri commerciali al ponte di Galata, luci natalizie e alberi di Natale giganti – nonostante non sia festa nazionale e non ci sia più di uno zero virgola qualcosa di cristiani -, traffico da megalopoli del sud del mondo, altezze da terra inafferrabili senza alzare il mento. Banche a dozzine, si toccano l’un l’altra. Spazi verdi completamente assenti. Arrampicandosi su dal Corno d’Oro in direzione inversa non migliora l’ambiente, aumenta la densità di caffè e negozi, locali e turisti, boutique e grandi catene, souvenir e ristoranti fino all’esplosione di İstiklal Caddesi. Al centro di questo lungo occidentalissimo corso potresti trovarti in qualsiasi città del mondo mediamente grande e fortemente affollata senza riconoscerne l’identità.

taksimPrincipio o fine della via principale, Piazza Taksim. Polizia in tenuta antisommossa ai lati, idranti disperdifolla agli angoli, militari armati a guardia di palazzi protetti da palizzate. Da maggio, da #occupygezi, qua nessuno ha scherzato più. Gezi Park, alle spalle della piazza, è una gettata di cemento contornata da un filo d’erba, pochi alberi spogli. D’altra parte era una caserma militare. La stessa Taksim è una spianata di cemento e asfalto stretta tra alberghi di lusso, stridenti edifici cadenti e alti palazzi in vetro con insegne di multinazionali; terminal di autobus e interscambio della metropolitana, luogo di transito più che di incontro.

E invece lo scontro ha fatto sua Taksim e ingoiato Gezi. Un percorso iniziato nel 2011 con la grande marcia dell’Anatolia diretta ad Ankara, intenzionata a portare al governo la protesta contro progetti di dighe e centrali che per il profitto di pochi avrebbero sfigurato la regione per sempre. Un movimento che ha preso coscienza di sé e negli anni è cresciuto. Quindi il primo maggio 2013, sindacati sul piede di guerra a Istanbul contro l’inarrestabile impoverimento della classe lavoratrice e cittadini pronti a tutto per manifestare il dissenso all’approccio neoliberista del governo ai beni comuni. Da lì al 28 maggio la tensione aumenta, le manifestazioni si fanno occupazioni a Gezi e guerriglia urbana a Taksim. Da battaglia ecologista – un progetto di centro commerciale al posto del parco – e urbana, #occupygezi s’è fatta rivolta globale per il diritto all’autodeterminazione di un popolo.
La repressione della polizia ha richiamato le prime pagine di mezzo mondo, Gezi Park è stato sgomberato e Taksim liberata dai “terroristi” (definizione governativa). Il bilancio attuale di 6 morti e oltre 4000 feriti rende questo uno degli avvenimenti più drammatici della storia della Turchia moderna. Ad oggi il dialogo ancora stenta, il centro commerciale non si farà, probabilmente, ma l’appalto resta – si parla di costruire un museo – e la magistratura sta studiando un modo per uscire dal labirinto limitando i danni.[1]

Il pezzo di storia scritto a Taksim è un frammento della Istanbul reale, troppo ingombrante per poterla nascondere ai visitatori. Ha senza dubbio danneggiato turismo, economia e immagine della città – quell’immagine preconfezionata a uso e consumo europeo, almeno – ma chi ha vissuto qua l’inizio dell’estate ha visto una faccia di Istanbul sincera e inedita di voglia di cambiamento, lotta di popolo contro un’autorità cieca e sorda.
fatihAltra faccia, altrettanto sincera per quanto diversa – nelle metropoli si corre spesso il rischio di non riuscire ad allontanarsi dall’artefatto, riconoscere del vero è un elemento da notare – è quella dei quartieri occidentali. Di occidente c’è solo la posizione geografica, tutto il resto è fuori dal circuito e fuori dal tempo. Ogni guida ne parla, a essere sinceri, delle zone di Fatih, Fener e Balat, al contrario di quanto si legge in giro introdotto immancabilmente dal “nessuno ne parla ma”. Vero però che un turismo mordi e fuggi, con pochi giorni – se non poche ore – a disposizione non può permettersi di mutilare le grandezze e le bellezze di Sultanahmet per orientarsi verso altri quartieri.

Tutto sommato siamo vicini al centro, a meno di cinque chilometri dal ponte di Galata. Queste aree sembrano un’istantanea di metà Novecento, si respira un’atmosfera densa e antica, immersa tra architetture in legno e muratura, tracce di religioni sovrapposte, colori tenui e sensazioni sospese. Il modo migliore di gustarsi il quartiere greco e quello ebraico è perdersi. Abbandonare le cartine e immergersi nei vicoli, salire e scendere perdendo l’orientamento, mescolarsi alle donne velate e agli uomini nei bar, lasciarsi guidare dai sensi. Qua non parlano la tua lingua come al Bazaar né cercano di venderti souvenir come a Santa Sofia. Qui puoi finalmente sentirti anche a disagio, straniero, fuori luogo, libero, infedele.
Ragazzine in niqab con iPhone dalla cover di Hello Kitty, boutique monocapo – lungo, coprente da testa a piedi, nero – accanto a quelle con abiti da sposa gipsy fluo, le quattro dita dell’adesivo R4BIA pro Morsi sulle vetrine, moschee circondate da uomini i cui sguardi lasciano intendere quanto non saresti così ben accetto all’interno che qua non è Sultanahmet; più donne – occhi, di donne. I niquab non mostrano altro – che uomini per strada, caffè impenetrabili tanto è denso il fumo, insegne in arabo, persiano, greco e ebraico. Profughi siriani e iraniani nelle vie secondarie. Moschee, sinagoghe e chiese ortodosse disegnano profili inediti di campanili e minareti.

bosforoSulle prime, l’Asia – la Istanbul a Oriente del Bosforo – sembra come l’Europa. Ma col primo ponte alle spalle, pochi chilometri te la mostrano subito peggiore. Stesso caos, stesso commercio, stesse luci, ma più sporcizia nei centri e più megastore nelle periferie, meno moschee e più grattacieli, meno bazaar e più senzatetto, meno turisti e più disperati.

Sarà la stessa crisi che ha fatto del mondo la sua casa, ma la transizione tra 2013 e 2014, sotti i torricini di Ortaköy, lato europeo del ponte, è salutata senza botti, senza fuochi, quasi senza brindisi. Le barche sul bosforo mute, le grandi moschee del centro illuminate e nitide in lontananza, immobili. Due desideri gettati nelle acque tra i continenti, uno per me uno per noi.
Il canto dei müezzin accompagna le prime luci del nuovo anno, sul ponte di Galata si risollevano gli ami, i minareti della città vecchia si scrollano di dosso la bruma dell’alba. Le lancette tornano un’ora indietro, nei cieli balcanici. Il degrado di Roma il bentornato, il mal di testa la conferma, i postumi i nutrimenti di un inizio come troppi già visti, in coda a una fine di un giro durato sia troppo che troppo poco.

29 Dicembre 2013 – 1 Gennaio 2014
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[1] Con la diffusione che ha avuto e l’importanza che per svariati motivi e non sempre condivisibili fini l’Europa e i suoi media hanno dedicato alle vicende di Gezi Park, ognuno ne saprà già abbastanza. Io ho scoperto di saperne molto poco. Ci sono pubblicazioni – anche in italiano, reportage e approfondimenti dei tanti connazionali in loco – e svariate pagine web sull’argomento, ad oggi ancora in fieri, a quanto ho visto. Ma non moltissimo, per chi non sappia come approfondire o soffra di fronte all’inglese. Buone informazioni le ho trovate su euronomade (chi se l’aspettava una compaesana in prima linea) e sotto il tag #OccupyGezi del blog Generazioni Occupy del manifesto. Per gli stomaci più duri, occupygezipics mostra su tumblr qualcosa di più crudo rispetto ai tg delle venti.



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