Salento, vent’anni dopo

Qualche déjà vu e un tragico epilogo dal tacco d'Italia.

Pubblicato il 12 Luglio 2020

Credevo di averlo già in mano questo pezzo. Come quando facevo il giornalista, il pezzo di “politica” lo scrivevo prima e al fatto partecipavo giusto per conferma, per due foto e tre virgolettati, tanto erano prevedibili le istituzioni. Temo non sia cambiato molto. Ma il vizio mi è rimasto e due righe sul Salento le avevo già buttate giù prima di partire.

Sarà che questa è la quarta volta che scendo, sarà che speravo non fosse cambiato nulla in questi vent’anni anni, sarà che luglio non è agosto, sarà che viaggiare con un figlio piccolo e un altro nella pancia della mamma non è come muoversi in treno e tenda, sarà che non bisogna mai tornare negli stessi posti e volevo esorcizzare la paura di trovare tutt’altro, ma non ha funzionato. E ho buttato le righe scritte.

san cataldo

San Cataldo (LE)

Salento 2020

Il Salento non è più come a inizio duemila. Non tutto, almeno. Niente resta lo stesso in quindici anni, d’altra parte. Di mezzo poi una pandemia c’ha messo il suo e la xylella ha ridisegnato il paesaggio bruciando milioni, milioni davvero, di olivi. Stavolta ho attraversato tutto il Salento, da nord a sud da costa a costa. Non mi sono fermato a guardare l’Adriatico: Ostuni, Brindisi, Lecce, Torre dell’Orso, Otranto, Tricase, Santa Maria di Leuca, Gallipoli. So che non tornerò più, così come sapevo che non sarei dovuto tornare.

Una settimana di vento e sole – che Salento sarebbe senza – trascorsi a cercare di rivedere l’Albania e i monti Acrocerauni in fondo all’Adriatico. Era il ricordo più bello che avevo, dopo ore e ore di treno e bus, rivedere il mare a Torre dell’Orso con quelle vette così distinte lì di fronte. Pensare che da Valona si vedeva scintillare questa costa, così piatta, solo grazie alle luci, e da qua nemmeno l’ombra dell’altra costa, erta e selvaggia.

Le due coste oggi e ieri

Cambiano tante cose in quindici anni, ancora di più in venti. La costa adriatica, che ricordo mediamente selvaggia, ora è a tratti abbandonata a tratti uniformata. Di sicuro, oggi è nota; nel Duemila lo era solo a qualche categoria. L’ho vissuta in anni in cui mi formavo sulla triade cinematografica pugliese Winspeare Rubini Salvatores, soprattutto Winspeare e soprattutto Sangue vivo, e il Salento l’ho conosciuto così e così l’ho visto coi miei occhi. Ma ormai è preistoria. Se la pandemia sta tenendo lontani almeno gli stranieri, ai turisti ho sentito parlare solo accenti del nord. Magari ricordo male, ma una volta non mi sembra fosse così gettonata questa terra.

Che poi lo Ionio sia una piscina di acqua cristallina e l’Adriatico una burrasca, a me, che di bagni in mare non ricordo di essermene fatto quaggiù e che comunque accetto come mare quello che bagna Civitanova Marche quindi ho aspettative davvero basse, ecco, a me importa poco. Del Salento preferisco portare a casa le onde, piuttosto che i bagni. E tante altre cose, dai pasticciotti al Primitivo, passando per l’intensità dei colori accesi dal sole, per i luoghi ritrovati, per il vento che piega i carrubi, per le querce secolari, per le zampe dei gechi, per le scogliere schiaffeggiate dal vento, per le architetture che esplodono nel cielo blu.

San Cataldo

La spiaggia di Lecce, una decina di km di strada dritta dal centro, è San Cataldo. Degrado e abbandono, immondizia, bunker, siringhe, locali sfitti, calcinacci, rovine e abusivismo. Mi sono sentito subito a casa.

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San Cataldo (LE)

Dopo l’interminabile Abruzzo a corsie ridotte, il tavoliere fumante di rocce e sabbia e tralicci e pale eoliche ferme, l’inferno barese di palazzoni e tangenziali che chissà con quanto orrore avrà vissuto la quarantena, i trulli e i muretti a secco e gli olivi secolari intrecciati del brindisino, mi meritavo magari di meglio. Ma dal Salento si prende quello che ti dà, non si chiede.

san cataldo

San Cataldo (LE)

Alle 9 del mattino il pane ancora non è sfornato, ma tanto i forni sono ancora chiusi; gli orari degli esercizi commerciali spinti fino alle 22. Per chi, non è ancora chiaro; forse in agosto si aspettano il controesodo. I salentini saranno ancora tutti sparsi per l’Italia, chi lavorando chi meno, ma questa è terra di migranti e luglio ancora non è tempo di vacanze. Per chi le avrà, che molte fabbriche sfrutteranno la passata chiusura forzata per recuperare.

In Salento, d’estate, piove una volta in cinque mesi. Oggi piove. Vento teso da nord e onde di due metri.

La morìa degli olivi è agghiacciante. Chilometri e chilometri di alberi bruciati dalla xylella. Un disastro che toglie il fiato. Distese di pannelli solari sopra le radici estirpate. Non si riprenderà più l’agricoltura, da queste parti. L’olivo è tra le piante che impiegano più anni per dare frutti. Nel medioevo, a ogni assedio, si tagliavano proprio gli olivi per indebolire le città assediate. Esattamente come i coloni israeliani fanno da decenni in Palestina, bruciando e avvelenando gli olivi in Cisgiordania nella loro quotidiana repressione inflitta a un popolo sovrano che affamano dal 1948.

Lo Ionio

A sud, giù, dopo il canale di Otranto, a Tricase la quercia vallonea più antica d’Italia. XII secolo. Un gigante che in Italia trovi quasi solo qui, la vallonea non cresce sulla penisola – in Albania e Grecia prolifera -. Nei secoli passati, lungo la vallesina, i conciatori anconetani hanno provato più e più volte a piantare le ghiande giganti portate dall’Albania ma invano.

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Tricase (LE), quercia vallonea

I due mari, l’Adriatico e lo Ionio, si separano a Santa Maria di Leuca. I corrubi spettinati dal vento sotto il santuario, il faro a picco sulla punta del tacco dello stivale.

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Santa Maria di Leuca (LE)

Dove inizia lo Ionio le spiagge sono popolate da gioventù locale. Niente reggae né raggamuffin e joint, ma musica pop e rap e brindisi con spritz. I bagnini igienizzano le sdraio con acqua di mare, il distanziamento sociale inferiore a quello di Civitanova, le mascherine nei luoghi chiusi un brutto ricordo.

Su, fino a esplodere a Gallipoli. La bussola si rovescia e perdo l’orientamento. Quella ionica, di costa, non l’avevo mai vista, ma l’immaginavo, conoscendone i frequentatori. C’era un motivo se non mi sono mai spostato dalla parte orientale e da Gallipoli mi tenevo alla larga. Discoteche sulla spiaggia, PR che invitano le ragazze alle serate e fanno molta attenzione a schivarmi coi loro flyer. Una volta, sulla costa opposta, passavano di mano foglietti ciclostilati o poco più per le dancehall, le jam – che se lo ricorda Gusto Dopa al sole a Monteroni? – o nei casi più spinti i party ai laghetti Alimini che erano veri e propri rave.

Tra i due mari

Al centro del Salento come un asse di riflessione. Torre dell’orso, col suo anfiteatro dove aspettare la tempesta che arriva dal mare, l’indice del cambiamento di questi anni. Trenini turistici e sightseeng tra le vie del turistificio lucente che è diventata, come San Foca, come Otranto, come tante altre località ormai senza identità che potrebbero essere Capri o Venezia o Sirolo. Non una nota di pizzica, non un battere di tamburello. Per le strade musica rap. Quel rap lì.

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Lecce

Lecce è grande come Ancona. Anche più. In Ancona non ci moriamo di fame ma poco ci manca, tutto direi tranne che è una città ricca. Però, una zona industriale di un certo calibro ce l’ha. Mi chiedo come vivano, qua. Cosa faccia tutta questa gente per mangiare. Le case costano come tra i monti dove vivo io. Il turismo non fa vivere una città di quelle dimensioni, non basta, non basta a Rimini, figuriamoci qua. Senza stranieri poi, quest’anno. Tra tangenziale e città, rispetto a una volta, è sorta una zona commerciale, almeno, ma di industria ne ho vista poca. Tendo ormai a escludere anche l’agricoltura, intorno è solo morte e alberi secchi ormai.

E se Lecce piange Brindisi non ride. Di lunedì, tarda mattinata, nessuno in giro. Al porto qualche timido yacht beccheggia accanto alle navi da guerra della Marina militare. All’ombra della centrale Federico II paesi abbandonati all’incuria, alle mafie e ai rom. Gli africani si lanciano cocomeri giganti nei campi. I jet USA smanettano tutto il giorno in cielo diretti alla base di San Vito dei Normanni.

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Monti Acrocerauni oltre l’Adriatico

La fine del viaggio

Il giorno in cui si torna a casa sta per nascere. È ancora notte e le zanzare mi tormentano. Sono passate da un po’ le quattro del mattino, mi alzo per andare in spiaggia a vedere l’alba, l’ultima di questo ritorno in Salento, sulla spiaggia di San Cataldo. Finalmente l’Albania. I suoi monti appaiono chiaramente ora che il sole gli sta sorgendo alle spalle. Che bel saluto mi ha mandato, il Salento, penso. Con il mare finalmente calmo.

C’è un ragazzo a terra, a una cinquantina di metri da me. Starà dormendo. È sabato mattina, ancora non si è levato il sole, quante volte è successo a me. Sorrido e mi allontano, gli occhi sempre fissi sui monti a oriente e il cielo che da nero si fa rosa poi rosso.

* * *

Quel ragazzo non era un ragazzo. Avrà avuto cinquant’anni, e non ce l’ha fatta a seguire gli altri.

Un’imbarcazione carica di pakistani e bengalesi, col mare calmo, ha attraversato l’Adriatico nella notte per sbarcare su questa costa. Una quarantina di migranti, che toccata terra si è diretta a piedi verso Lecce. Quest’uomo, sfinito dalla traversata, si è accasciato a terra e l’hanno lasciato lì.

Si alzano gli elicotteri, la guardia costiera perlustra la costa, la croce rossa cura questo e gli altri disperati lungo la strada. Stanno tutti più o meno bene, mi ha detto il finanziare che mi ha interrogato. C’ero solo io in spiaggia, a quell’ora. Io e qualche dozzina di disperati scampati all’ennesima tragedia in questa fossa comune che è diventato il nostro mare.

Un’ora dopo il sole si è staccato dal mare. Sono tornato sui miei passi e ho incrociato lo sguardo del pakistano, circondato da funzionari e volontari, una bottiglia d’acqua in mano e una coperta sulle spalle, sopravvissuto a questo esodo e purtroppo solo all’inizio di quello che lo aspetta da oggi.

Non sono nuovo a queste esperienze, mio malgrado, e ho anche parecchie cose da dire sull’immigrazione e non certo color arcobaleno, ma quel momento mi ha tolto il fiato. Mi sono sentito l’uomo più misero, inutile e colpevole sulla terra.

Col sole si alza la foschia e i monti albanesi, laggiù a oriente, sfumano via dove il cielo si unisce al mare.



Dillo a tutti

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Tanto in merito
  • Claudia Piccinini dice:

    Ho letto questo tuo racconto del Salento col fiato sospeso e rivedendo nelle tue parole ogni tappa del mio, nel 2010. Anch’io temo sempre di tornare negli stessi posti, perché inevitabilmente cambiano, mai in meglio…complimenti per come ti esprimi e per l’arte rara e preziosa della tua attività di calligrafo! Ho guardato gli esempi dei tuoi lavori grazie ad Aldo Iotti, che ti ha citato e lodato immensamente e ti saluta. È lui che mi ha appassionato a questa disciplina. Tanti complimenti per la passione che dimostri, in generale, e per la splendida carriera!
    Claudia Piccinini, Reggio Emilia

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