Galiza, primeira batida

Corazón atlántico. Siente el latido

Pubblicato il 22 Ottobre 2011

Mi sciolgo dall’abbraccio e già mi sento dimezzato, il biglietto di ritorno del quale avevo escluso l’acquisto in tasca, ora, che le decisioni prese in mesi lunghi anni cambiano in pochi giorni. L’Occidente là da millenni e per millenni non oltre là da domani con me addosso. Il tuo microcosmo che lotta per tenermi fuori e io, con la risposta più semplice alla domanda che m’ha pietrificato la notte di transizione tra lingua e palato, t’ascolto al gate con la consapevolezza che sarà l’ultima voce italiana cui sentirò articolare consonanti doppie per un bel pezzo. Un lasso temporale ridicolo, tutto sommato, per chi vive il tempo per quello che è. Un’eternità per chi ne sente il peso ogni istante.
Riapro gli occhi sotto il mantello Sandeman. Te l’avevo promesso che tornavo. I piedi sulla terraferma ormai da ore, Matosinhos intorno e il mare aperto senza orizzonte e aspetto invano l’ansia, mi consumo nel pensiero di aver fatto una sonora cazzata mentre il cervello coi principali sensi al seguito ancora non m’ha raggiunto e me ne resto in attesa sospeso tra uno standby forzato e una nube di interrogativi a bassa quota sotto un sole atlantico che le temperature che mi hanno salutato al Marconi non si aspettavano a guardare la fauna in costume tra una Sagres e l’altra come in un monitor appannato e forse ieri avrei dovuto bere meno.
Un pensiero col cane armato che s’arrampica verso l’unica tensione cui potrebbe che dice che tu non lo fai e non lo faresti, e le sensazioni finiranno per estinguersi perché il tempo segna quanto cancella, ma il vuoto oggi straripa. Non me ne sono mai andato de verdad, è la precarietà esistenziale in cui ci hanno imprigionato col nostro assenso che ci muove, ma una posizione non è uno stato, poi le ho sempre salutate io le ombre che si allontanavano, dall’unico posto che potevo occupare da cui non mi sono mai mosso, chilometri alle spalle.
Il primo tramonto sull’Oceano rispetta le aspettative, oltrepasso il Minho, la raya, perché è tutto tranne che una frontera quel confine posto dall’uomo per dividere quello che la natura ha creato unito e la cultura l’ha confermato, e l’esplosione si tuffa nell’acqua per morirci dalla parte opposta a quell’acqua dove tra il Conero e le Palme nasce. Una metafora che fa slittare tanti significati.
Il traduttore online traduce Vigo con “I am in force”. Credo che anche solo accennare un sorriso sia sconveniente. Poi la pioggia di luci si scioglie nella Ria, duemilaquattrocento chilometri dopo.

Scopro che Vigo si pronuncia /B/igo, che yo me llamo ripete due volte un fonema simile a dʒ e che l’elemento indispensabile ora è il costume. Che l’acqua galega è la migliore della penisola iberica e che Berlusconi mi precede qualsiasi informazione relativa alla mia nazione voglia fornire. Alla difesa d’ufficio dell’Italia, che è altro da il suo primo ministro, rinuncio quasi subito, non vale la pena. Sentirmi dire da chiunque che qua è più bello con la pioggia che con questo sole e ne dubitavo, sinceramente. Scopro che l’indipendenza galega la chiede la sinistra estrema e che la sinistra meno estrema apostrofa come fascista la prima, che è il portoghese a derivare dal galego e che l’Atlantico è l’unica vocazione di questa terra. Il sole che non si decide mai a farsi risucchiare dall’orizzonte liquido.
Otto piani di nave da crociera gonfi di nordeuropei e il sole che alle 10 del mattino ancora latita. Non sentire, effettuata la dovuta eccezione, la mancanza di nulla dall’altra parte e l’averne paura perché qua ci lascerò un altro pezzo di cuore e non me n’è rimasto poi molto. I tratti delle ragazze così familiari, o io che cerco i tuoi in ogni viso, spinto da un vuoto che ha un’identità precisa. Una pioggia di trischeli, adolescenti sopra le tavole a truppe tra la Xunta e la Rua das Avenidas, una luna piena che si alza enorme tra gru e container, il casco vello che si scalda per la Fiesta de la Hispanidad. Le parole dei resistenti dell’Acampada de Vigo che un po’ di speranza me la ridanno, quando penso che sono italiano e che se le radici non mentono potremmo immaginarlo anche noi, così affossati nell’italianità e non trovo uno stato d’animo depressivo compulsivo peggiore, un futuro migliore.
Una scelta che potrebbe non prendermi in considerazione e lo capirei, alla quinta come alla quindicesima caña di Estrella, con questa vetrina spenta che mi fissa e mi domanda in quale altro altrove non sarò altro rispetto a me, quanto lontano è quell’altrove e quanto può accompagnarmi là questo momento. Dove momento ha tutti i connotati del mondo tranne quello temporale.

Destra e sinistra geografiche perdono significato dove hai arriba e abajo. Lo scialo di spalmarsi in spiaggia a metà ottobre. Io che m’ero preparato al peggio ma il galego, oltre le indicazioni stradali e quelle turistiche – che simpatici – non lo parla nessuno. Ma tutti sono fieri di conoscerlo e non perdono occasione per sottolinearlo. Poi Vigo è un porto, e che porto, il più grande porto peschereccio del mondo e non mi pareva vero quando me l’ha detto google, mica può permettersi un idioma per pochi (ma il mercato internazionale del pescado, enorme, notturno, mi dicono sia in galego strittu). Il traghetto per a mellor praia do mundo (lo dice The Guardian, e nemmeno a questo volevo credere) mi fa maledire le Estrellas, ma lo spettacolo – cazzi e tette al vento nel dì di festa esclusi – ripaga la Ria tagliata longitudinalmente dal legno tutt’altro che veloce.
Le vertigini sono nulla per avere quel faro. Per avere quell’Oceano. Per avere quella voce che rapisce e avvolge e trasporta da te alla pace. Un’ora con gli occhi fissi nei suoi. Il cervello si spegne, dopo un po’, e tutti i sensi si sincronizzano col respiro dell’Atlantico, col suo battito. E mi sono sentito bene come non mai. E ho pianto tanto che non riuscivo più a fermarmi.
Credo per la felicità. Eppure lo so che era perché avrei voluto anche il tuo, di battito, a seguire il mio con quello degli elementi. Ma forse anche questa è una cosa felice.

9-13ottobre2011_continua



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