Internet non ha reso la mia vita migliore.
Non l’ha fatto mettendo sotto occhi e polpastrelli al mondo uno strumento che il mondo – o almeno il mondo intorno a me – non era pronto per gestire, già che la miseria dell’utenza media – inutilità, analfabetismo, pochezza, ignoranza e tutto l’armamentario del banale – è la medesima sia online che offline. Ma online peggiora, nel momento in cui l’esilie barriera dell’autocensura crolla assieme all’assenza fisica dell’altro da sé.
Non l’ha fatto basando la sua seconda versione sulla possibilità di intrecciare rapporti “umani” con una semplicità che non si sarebbe immaginata – e voluta? – nell’era pre condivisione, regalandoci migliaia di “amici” sconosciuti, centinaia di “seguitori” incauti e un entusiasta accerchiamento di superficialità e vanità intriso di basse pulsioni, figlio del tutto subito anche se quel tutto non è né vale nulla ma ce lo siamo già dimenticato al terzo click. Non che la qualità delle mie relazioni ante sharing fosse poi un granché, in realtà ero patetico anche con carta e penna, ma il mio piccolo e brutto mondo finiva nella pagina in cui nasceva. Ora tanti piccoli brutti mondi wide web si riproducono per otto ogni zerovirgolatre secondi.
Non l’ha fatto inchiodandomi a dieci ore quotidiane di simbiosi col 1920×1024 brandizzato mela e cablato Telecom, che in quei brutti mondi di cui sopra mi trascina per scoprirli e replicarli e alimentarli e veicolarli e tanto solo per ammonticchiare spicci in vista degli anni difficili davanti. Ma questo, forse, non è tutta colpa di internet. Del sistema economico capitalista criminale ne parliamo un’altra volta, quando elemosinerò schiavitù dal prossimo padrone pro tempore.
Non l’ha fatto obbligandomi al nevrotico factchecking delle più inutili informazioni che dimentico prima ancora che lo smartphone altrui torni in tasca altrui, che vivevo
Certo, il solo fatto che qui, online, in uno spazio ancorché prossimo all’invisibilità, orfano di testate e redazioni possa lamentare i miei dolori rivaluta la rete, senza la quale queste righe chissà in quale dei troppi quaderni che da decenni mi sommergono si addormenterebbero. Perché, se internet non m’ha cambiato in meglio la vita, checché ne dica Wired, del web, in fondo, non si butta tutto. Non si butta wikipedia, né l’open source né il copyleft, non si butta jQuery, l’HTML e il CSS, non si buttano anobii e issuu, non si buttano le web radio, non si butta il porno, non si butta panoramio, non si butta il protocollo bitTorrent, non si butta ibs, non si butta google ma soprattutto non si butta streetview.
Tutto questo per un’apologia del catapultare l’omino a caso nel mezzo mondo emerso fotografato dal gigante di Mountain View – quasi solo il primo mondo e un timido accenno di BRICS, in realtà -, per ringraziare l’evasione del volo tra i continenti senza alzarmi dalla scrivania. Inutile dire altro, chi sa di che parlo capisce. Qualche shot di coordinate calpestate, o sognate, o nel cassetto, o emerse da link dimenticati, o semplicemente belle o brutte o per qualche imperscrutabile attivazione neurale meritevoli di impressione.
Tolto questo, il futuro di quel mondo lì è dei nativi digitali. Tenetevelo. Visto il presente, non mi sembra il caso di litigarselo.
No. In fondo, non si butta tutto.
E non tutto è così invisibile.