Bruno ne ha viste tante. Quegli occhi da diciottenne, nel 1944, avrebbero decisamente preferito vedere altro, ma la storia e la geopolitica gli hanno dato questo. Se poi penso a quel poco che s’è trascinato stanco e inutile di fronte ai miei, di occhi diciottenni, lustri temporali e secoli psicologici fa, e lo confronto con le scene che racconta Bruno, capisco che non raccogliere le sue parole e diffonderle è regalare decenni dei miei diciott’anni a chi verrà poi.
Bruno, con le lacrime agli occhi e il fazzoletto al collo, da sessant’anni racconta l’attacco al monte Argentaro e il sacrificio di Salvatore Valerio, la neve e i muli per raccogliere il lancio di armi degli alleati, le notti tra i prati di Gagliole e Roti, l’eccidio di Chigiano e quello di Valdiola, il Battaglione Mario, i compagni caduti.
Erano i suoi diciott’anni. E non lo sapeva che il suo nascondersi nella macchia a mille metri, in quella gola dove nasce il Musone, male armato e peggio addestrato, coinvolto in una guerriglia che gli stava rubando la giovinezza e gli avrebbe impresso nella retina immagini indelebili più di un branding avrebbe permesso a me, quasi settant’anni dopo, di essere libero di scegliere di applaudire le sue parole.
Non lo sapeva ma l’ha fatto. Bruno Taborro è il Presidente ANPI sezione settempedana, l’ultimo partigiano del Battaglione Mario ancora in vita. Ha combattuto per la libertà, che detta così sembra un payoff di una di quelle campagne di quando militare a sinistra poteva avere ancora un senso, ma in effetti, da diciottenne, nel 1944, era quello che pensava di fare. E già questo potrebbe bastare a guadagnarsi il rispetto di tre generazioni a seguire.
Bruno c’ha dedicato i suoi diciott’anni. Se esiste una società civile, questo non deve dimenticarselo. Anche perché, pur da diciottenne, Bruno ci sperava che un’idea potesse vivere nel futuro. Noi che oggi eravamo lì ad applaudirlo glielo abbiamo confermato.
Ma per domani non garantisco. La situazione s’è un po’ deteriorata, Bruno.